Essere Chiesa con gli abbandonati
Il discernimento morale
S. Alfonso aiuta a comprendere la coscienza e la sua reciprocità con la norma.
1. La coscienza
2. La reciprocità tra coscienza e norme
3. La complessità delle decisioni
4. Il dubbio e la perplessità
5. La formazione della coscienza
6. Affidati gli uni agli altri
2. La reciprocità tra coscienza e norme
3. La complessità delle decisioni
4. Il dubbio e la perplessità
5. La formazione della coscienza
6. Affidati gli uni agli altri
1. La coscienza
Parlare di coscienza sta tornando di moda. Il ricorso ad essa è sempre più frequente nel nostro contesto, a tutti i livelli. Gli stessi mezzi di comunicazione sociale le prestano una crescente attenzione. La complessità e la gravità dei problemi che ci troviamo ad affrontare ci stanno sempre più convincendo che la soluzione passa necessariamente per una «rivoluzione» delle coscienze. Diversamente anche le riforme strutturali più valide non producono frutti. Significative le parole di Giovanni Paolo II nei riguardi delle problematiche concernenti la vita: « Nell’odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze. Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita» (1).
Per chi crede il ritorno alla coscienza è un segno dei tempi prezioso, che può lievitare la mentalità morale con prospettive fondamentalmente evangeliche: evidenzia che il bene e il male dipendono essenzialmente dal «cuore»; sottolinea la persona e la sua fondamentale dignità; testimonia il desiderio di sottrarsi al potere di manipolazione così accentuato nella nostra società; permette di aprire sull’assoluto il nostro desiderio del bene e del vero.
Parlare di coscienza sta tornando di moda. Il ricorso ad essa è sempre più frequente nel nostro contesto, a tutti i livelli. Gli stessi mezzi di comunicazione sociale le prestano una crescente attenzione. La complessità e la gravità dei problemi che ci troviamo ad affrontare ci stanno sempre più convincendo che la soluzione passa necessariamente per una «rivoluzione» delle coscienze. Diversamente anche le riforme strutturali più valide non producono frutti. Significative le parole di Giovanni Paolo II nei riguardi delle problematiche concernenti la vita: « Nell’odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze. Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita» (1).
Per chi crede il ritorno alla coscienza è un segno dei tempi prezioso, che può lievitare la mentalità morale con prospettive fondamentalmente evangeliche: evidenzia che il bene e il male dipendono essenzialmente dal «cuore»; sottolinea la persona e la sua fondamentale dignità; testimonia il desiderio di sottrarsi al potere di manipolazione così accentuato nella nostra società; permette di aprire sull’assoluto il nostro desiderio del bene e del vero.
Come ogni altra realtà storica, anche questa maggiore attenzione alla coscienza non è esente da rischi. Colpisce subito la diversità di significati che vengono dati allo stesso termine. A volte anzi si ha l’impressione che si finisce con il chiamare coscienza ciò che in realtà non lo è: la reazione immediata della persona nelle diverse situazioni, non sorretta dalla necessaria preoccupazione di verificarne il valore; la pigrizia dell’egoismo chiuso al dialogo e alla ricerca della verità; l’accettazione rassicurante del «così fan tutti».
Soprattutto deve preoccupare, come sottolinea Giovanni Paolo Il, quella visione radicalmente “creativa” della coscienza che è frutto di tendenze culturali «che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà» (2).
Su questo sfondo l’insegnamento di sant’Alfonso nei riguardi della coscienza si svela carico di forte attualità. Occorre però leggerlo integralmente,, alla luce della sua visione dell’uomo e della redenzione, delle preoccupazioni pastorali che ispirano le sue opere e del contesto nel quale è vissuto.
Soprattutto deve preoccupare, come sottolinea Giovanni Paolo Il, quella visione radicalmente “creativa” della coscienza che è frutto di tendenze culturali «che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà» (2).
Su questo sfondo l’insegnamento di sant’Alfonso nei riguardi della coscienza si svela carico di forte attualità. Occorre però leggerlo integralmente,, alla luce della sua visione dell’uomo e della redenzione, delle preoccupazioni pastorali che ispirano le sue opere e del contesto nel quale è vissuto.
Sant’Alfonso è innanzitutto convinto del ruolo imprescindibile che è proprio della coscienza in tutta la vita morale. Per questo ritiene che tanto la teologia morale che la formazione morale non possano realizzarsi correttamente se si prescinde dall’approfondimento della coscienza. La sola determinazione delle norme e l’informazione su di loro, benché necessarie, non bastano: occorre che esse arrivino costruttivamente (cioè “salvificamente”) nella vita di ognuno di noi. E per questo è indispensabile una coscienza responsabile e matura, lealmente aperta alla verità e al bene, pronta ad aderirvi man mano che lo riconosce.
La trattazione della coscienza è perciò al primo posto negli scritti morali alfonsiani. Nel “monitum” con cui apre la Theologia moralis, Alfonso si preoccupa di ricordare al lettore che il trattato sulla coscienza, che «apre l’accesso a tutta la teologia morale», è stato da lui «elaborato con speciale cura». E’ anzi solo opera sua, mentre per le altre materie si rifarà ai «trattati di un altro autore» (BUSEMBAUM), integrandoli e correggendoli con proprie aggiunte e annotazioni (3).
Questa importanza deriva dal fatto che per Alfonso è la coscienza la regola prossima e formale del nostro agire, come ricorda all’inizio del primo capitolo: « E’ duplice la regola degli atti umani: l’una vien detta remota, l’altra prossima. Remota, cioè materiale, è la legge divina; la prossima, ovvero formale, è la coscienza. Sebbene infatti la coscienza debba conformarsi in tutto alla legge divina, tuttavia la bontà o la malizia delle azioni umane ci viene rivelata secondo l’apprendimento che di essa ne ha la coscienza» (4).
Ritorneremo in seguito su questa reciprocità tra coscienza e legge divina. Per il momento è sufficiente rilevare che è la coscienza la regola prossima e formale del nostro agire. Prossima e formale: sono termini che rimandano al linguaggio aristotelico‑scolastico. Potremmo tradurli così: solo quando sono detti dalla coscienza gli imperativi morali sono veramente tali. «Le esigenze etiche, scrive Giovanni Paolo II, non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza morale» (5).
La trattazione della coscienza è perciò al primo posto negli scritti morali alfonsiani. Nel “monitum” con cui apre la Theologia moralis, Alfonso si preoccupa di ricordare al lettore che il trattato sulla coscienza, che «apre l’accesso a tutta la teologia morale», è stato da lui «elaborato con speciale cura». E’ anzi solo opera sua, mentre per le altre materie si rifarà ai «trattati di un altro autore» (BUSEMBAUM), integrandoli e correggendoli con proprie aggiunte e annotazioni (3).
Questa importanza deriva dal fatto che per Alfonso è la coscienza la regola prossima e formale del nostro agire, come ricorda all’inizio del primo capitolo: « E’ duplice la regola degli atti umani: l’una vien detta remota, l’altra prossima. Remota, cioè materiale, è la legge divina; la prossima, ovvero formale, è la coscienza. Sebbene infatti la coscienza debba conformarsi in tutto alla legge divina, tuttavia la bontà o la malizia delle azioni umane ci viene rivelata secondo l’apprendimento che di essa ne ha la coscienza» (4).
Ritorneremo in seguito su questa reciprocità tra coscienza e legge divina. Per il momento è sufficiente rilevare che è la coscienza la regola prossima e formale del nostro agire. Prossima e formale: sono termini che rimandano al linguaggio aristotelico‑scolastico. Potremmo tradurli così: solo quando sono detti dalla coscienza gli imperativi morali sono veramente tali. «Le esigenze etiche, scrive Giovanni Paolo II, non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza morale» (5).
Cercando poi di precisare il ruolo della coscienza, Alfonso ricorre alla sua definizione secondo il linguaggio della tradizione scolastico‑casistica comune nel Settecento: «È il giudizio o il dettame pratico della ragione, con il quale giudichiamo che cosa qui è ora deve essere fatto perché bene o deve essere evitato perché male». In quanto dettame pratico si differenzia dalla «sinderesi, che è la conoscenza speculativa dei principi universali per il vivere bene».
Oggi, alla luce dello sviluppo delle conoscenze antropologiche e sotto la spinta della visione del Vaticano II che ne sottolinea la profondità e la complessità (6), possiamo e dobbiamo sottolineare maggiormente l’unità etico‑antropologica e la dignità di persona che la coscienza esprime. Invita in queste prospettive lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica: « La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità ["sinderesi"], la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti» (7).
Su questo sfondo la difesa alfonsiana del significato fondamentale e imprescindibile della coscienza in tutta la vita morale (il suo essere la regola formale della nostra vita) acquista ulteriore risalto e trova nuova attualità soprattutto in vista di una proposta morale che ridia dignità e tensione alla santità a tutti, a cominciare dagli abbandonati.
Oggi, alla luce dello sviluppo delle conoscenze antropologiche e sotto la spinta della visione del Vaticano II che ne sottolinea la profondità e la complessità (6), possiamo e dobbiamo sottolineare maggiormente l’unità etico‑antropologica e la dignità di persona che la coscienza esprime. Invita in queste prospettive lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica: « La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità ["sinderesi"], la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti» (7).
Su questo sfondo la difesa alfonsiana del significato fondamentale e imprescindibile della coscienza in tutta la vita morale (il suo essere la regola formale della nostra vita) acquista ulteriore risalto e trova nuova attualità soprattutto in vista di una proposta morale che ridia dignità e tensione alla santità a tutti, a cominciare dagli abbandonati.
2. La reciprocità tra coscienza e norme
«Nella fedeltà alla coscienza, afferma il Vaticano II, i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono sia nella vita dei singoli sia in quella sociale» Perciò «quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità» (8).
Sono parole fondamentali per la vita morale di ognuno di noi. La risposta più valida alla sfida della soggettività, così radicata e grave nella nostra mentalità, sta nell’approfondire la coscienza, il suo ruolo, la sua formazione. È la strada più agevole e trasparente per evitare individualismi e relativismi di qualsiasi tipo. Senza di essa la stessa riproposta delle norme rischierebbe di restare senza frutti.
«Nella fedeltà alla coscienza, afferma il Vaticano II, i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono sia nella vita dei singoli sia in quella sociale» Perciò «quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità» (8).
Sono parole fondamentali per la vita morale di ognuno di noi. La risposta più valida alla sfida della soggettività, così radicata e grave nella nostra mentalità, sta nell’approfondire la coscienza, il suo ruolo, la sua formazione. È la strada più agevole e trasparente per evitare individualismi e relativismi di qualsiasi tipo. Senza di essa la stessa riproposta delle norme rischierebbe di restare senza frutti.
Quando l’uomo si pone lealmente in ascolto della coscienza, come del suo «nucleo più segreto e sacrario», essa fa sperimentare «una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro». Ubbidire a questa legge, che è voce di Dio, « è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato» (9).
Troppe volte nel nostro contesto si tende a svuotare la coscienza di questa profondità e di questa voce. La si riduce al semplice risultato di fattori genetici, psicologici, ambientali, informativi. Sono tutti elementi che incidono nel cammino di maturazione della coscienza e possono anche falsarla in maniera più o meno forte. Da soli però non riescono a spiegarne tutta la ricchezza. Occorre arrivare al «sacrario» in cui l’uomo «si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (10). La vera coscienza è essenzialmente ascolto.
Significative le prospettive indicate da Paolo nel capitolo ottavo della lettera di Romani: « Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (v. 16); si pone come «legge che dà la vita in Cristo Gesù» (v. 2) e «viene in aiuto alla nostra debolezza» (v. 26) facendo in modo che «tutto concorra al bene di coloro che amano Dio» (v. 28).
Alfonso non si stanca di insistere sul fatto che la legge-voce della coscienza ha il volto e il timbro del Cristo che si dona totalmente all’uomo: è amore che vuole la sua pienezza e la sua felicità. La domanda morale, ha scritto Giovanni Paolo II, «prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita» (11).
Troppe volte nel nostro contesto si tende a svuotare la coscienza di questa profondità e di questa voce. La si riduce al semplice risultato di fattori genetici, psicologici, ambientali, informativi. Sono tutti elementi che incidono nel cammino di maturazione della coscienza e possono anche falsarla in maniera più o meno forte. Da soli però non riescono a spiegarne tutta la ricchezza. Occorre arrivare al «sacrario» in cui l’uomo «si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (10). La vera coscienza è essenzialmente ascolto.
Significative le prospettive indicate da Paolo nel capitolo ottavo della lettera di Romani: « Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (v. 16); si pone come «legge che dà la vita in Cristo Gesù» (v. 2) e «viene in aiuto alla nostra debolezza» (v. 26) facendo in modo che «tutto concorra al bene di coloro che amano Dio» (v. 28).
Alfonso non si stanca di insistere sul fatto che la legge-voce della coscienza ha il volto e il timbro del Cristo che si dona totalmente all’uomo: è amore che vuole la sua pienezza e la sua felicità. La domanda morale, ha scritto Giovanni Paolo II, «prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita» (11).
Tra legge morale e coscienza non si dà contrapposizione, ma feconda reciprocità. Il rapporto è fondamentale per entrambe. La posizione di Alfonso al riguardo è netta: la prima, ci ha già detto nel paragrafo iniziale della Theologia moralis, è«regola remota e materiale», la seconda è regola «prossima e formale» del nostro agire. Per questo «sebbene la coscienza debba conformarsi in tutto alla legge divina, tuttavia la bontà o la malizia delle azioni umane ci viene rivelata secondo l’apprendimento che di essa ne ha la coscienza».
Malgrado le difficoltà, che a volte si incontrano, occorre impegnarsi perché questa reciprocità venga percepita in tutto il suo significato di servizio per l’autentica libertà. « La libertà dell’uomo, sottolinea Giovanni Paolo 11, e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda» (12). Il «luogo» di questo incontro è appunto la coscienza dell’uomo. La libertà può allora essere sperimentata e vissuta come «segno altissimo dell’immagine divina» (13).
Malgrado le difficoltà, che a volte si incontrano, occorre impegnarsi perché questa reciprocità venga percepita in tutto il suo significato di servizio per l’autentica libertà. « La libertà dell’uomo, sottolinea Giovanni Paolo 11, e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda» (12). Il «luogo» di questo incontro è appunto la coscienza dell’uomo. La libertà può allora essere sperimentata e vissuta come «segno altissimo dell’immagine divina» (13).
La reciprocità delineata da Alfonso chiede un equilibrio tra coscienza e norme morali che non sempre è agevole realizzare. Va esclusa senz’altro ogni radicalizzazione: sia quella in favore della coscienza, sia quella in favore della norma.
L’autentica vita morale non può fare a meno né della coscienza né delle norme. Occorre però che l’equilibrio che di fatto si realizza tra di loro sia fedele al significato « prossimo e formale» e «remoto e materiale» proprio rispettivamente della coscienza e delle norme.
La strada delineata dal Vaticano II in Dignitatis humanae resta fondamentale: «Tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ordine a Dio e alla sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono». Tali doveri «attingono e vincolano la coscienza degli uomini», perché « la verità non si impone che in virtù della stessa verità, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore». Ne deriva perciò che «gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza che egli è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per arrivare a Dio suo fine ultimo» (14).
Immessa in questo contesto è possibile comprendere fino in fondo l’affermazione cardine di tutta la proposta morale alfonsiana: «una conoscenza dubbia del precetto non basta a far sì che noi siamo tenuti ad osservare questo precetto come voluto da Dio. Si richiede una conoscenza del precetto certa e manifesta, e fino a quando non l’abbiamo, è in possesso la nostra libertà e possiamo portarci verso il bene che noi stessi abbiamo scelto». Questo perché da Dio « prima è stato considerato l’uomo in quanto libero e poi è stata considerata la legge, con la quale l’uomo doveva essere vincolato» (15).
Tutto questo non va inteso come legittimazione della superficialità e del disimpegno. Per Alfonso è fiducia profonda nella dignità di ogni persona e nel desiderio di verità e di bene insito in lei, che il peccato non potrà mai soffocare del tutto; è certezza della forza sanante della grazia e dell’azione di stimolo e di guida dello Spirito. L’orizzonte è sempre quello della santità, che vuole rimettere con chiarezza nella vita di tutti. È convinto però che può farlo correttamente solo restando fedele alla strada misericordiosa del Redentore.
L’autentica vita morale non può fare a meno né della coscienza né delle norme. Occorre però che l’equilibrio che di fatto si realizza tra di loro sia fedele al significato « prossimo e formale» e «remoto e materiale» proprio rispettivamente della coscienza e delle norme.
La strada delineata dal Vaticano II in Dignitatis humanae resta fondamentale: «Tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ordine a Dio e alla sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono». Tali doveri «attingono e vincolano la coscienza degli uomini», perché « la verità non si impone che in virtù della stessa verità, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore». Ne deriva perciò che «gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza che egli è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per arrivare a Dio suo fine ultimo» (14).
Immessa in questo contesto è possibile comprendere fino in fondo l’affermazione cardine di tutta la proposta morale alfonsiana: «una conoscenza dubbia del precetto non basta a far sì che noi siamo tenuti ad osservare questo precetto come voluto da Dio. Si richiede una conoscenza del precetto certa e manifesta, e fino a quando non l’abbiamo, è in possesso la nostra libertà e possiamo portarci verso il bene che noi stessi abbiamo scelto». Questo perché da Dio « prima è stato considerato l’uomo in quanto libero e poi è stata considerata la legge, con la quale l’uomo doveva essere vincolato» (15).
Tutto questo non va inteso come legittimazione della superficialità e del disimpegno. Per Alfonso è fiducia profonda nella dignità di ogni persona e nel desiderio di verità e di bene insito in lei, che il peccato non potrà mai soffocare del tutto; è certezza della forza sanante della grazia e dell’azione di stimolo e di guida dello Spirito. L’orizzonte è sempre quello della santità, che vuole rimettere con chiarezza nella vita di tutti. È convinto però che può farlo correttamente solo restando fedele alla strada misericordiosa del Redentore.
3. La complessità delle decisioni
La complessità è diventata una delle principali caratteristiche della nostra società. Non v’è settore o situazione in cui l’interdipendenza non si ponga come fattore decisivo. E l’intreccio delle relazioni si fa sempre più fitto, estendendosi a tutte le dimensioni e a tutti i livelli, fino a farci sentire a volte come in una ragnatela che lascia poche possibilità di scelta. Spesso anzi rischiamo di restare prigionieri di una specie di frustrazione: perché preoccuparsi di scegliere se tutto è già determinato dai fattori oggettivi che interagiscono tra di loro?
In un tale contesto la vita morale esige una maturità di coscienza e di discernimento ancora più forte che nel passato. La conoscenza della norma morale è certamente un elemento decisivo, ma da sola non basta. Occorre la prudenza che rende capaci di comporre e di valutare correttamente tutti i fattori che sono in gioco. In Veritatis splendor Giovanni Paolo II, mentre respinge la posizione di coloro che vogliono attribuire alla coscienza una radicale creatività nei riguardi del bene morale (tale cioè da escludere il rapporto con la norma e la verità oggettiva), non esita ad affermare che « la vita morale esige la creatività e l’ingegnosità propria della persona, sorgente e causa dei suoi atti deliberati» (16).
Anche se oggi si è fatta più forte, la complessità delle nostre decisioni è stata sempre presente nella riflessione teologico‑morale. Il Catechismo della Chiesa Cattolicaricollegandosi alla grande tradizione ecclesiale sintetizza in questi termini tale consapevolezza: «La moralità degli atti umani dipende: dall’oggetto scelto; dal fine che ci si prefigge o dall’intenzione; dalle circostanze dell’azione. L’ oggetto, l’intenzione e le circostanze rappresentano le “fonti”, o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani» (17).
Il discernimento della coscienza dovrà fondere saggiamente queste diverse fonti con l’ aiuto della prudenza: «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudentedella coscienza» (18).
Il discernimento della coscienza dovrà fondere saggiamente queste diverse fonti con l’ aiuto della prudenza: «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudentedella coscienza» (18).
La proposta alfonsiana offre al riguardo delle pagine particolarmente significative, anche se bisognose oggi di essere rilette e sviluppate alla luce della novità del nostro contesto. La verità morale è verità pratica: non è possibile ridurla al solo contenuto dell’atto che si compie considerato in se stesso; riguarda la sua liceità alla luce di tutti i fattori che di fatto intervengono nel nostro agire. Contenuto oggettivo e liceità sono due prospettive da non separare, tanto meno contrapporre, ma da tenere in feconda reciprocità.
Esemplifico con quanto Alfonso afferma parlando del dubbio morale: «lo speculativoè quando si dubita della verità della cosa, v. gr. se la guerra sia giusta; se il dipingere sia opera servile; se valga il battesimo con acqua distillata, e simili. Il dubbio pratico poi è quando si dubita dell’onestà dell’azione, se per esempio è lecito in pratica il dipingere nella festa, o il militare nella guerra dubbiamente giusta. Sicché bisogna sempre distinguere il vero dal lecito: poiché il dubbio speculativo riguarda il vero, il pratico riguarda il lecito» (19).
Aggiunge perciò: «Diciamo che col dubbio pratico non è mai lecito operare perché l’uomo operando dee esser moralmente certo dell’onestà della sua azione… Col dubbio all’incontro speculativo è lecito operare, quando l’operante per altre ragioni praticamente giudica esser lecita l’azione; perché altre son le ragioni per giudicare della verità della cosa… altre le ragioni per giudicare dell’onestà dell’ azione» (20).
Esemplifico con quanto Alfonso afferma parlando del dubbio morale: «lo speculativoè quando si dubita della verità della cosa, v. gr. se la guerra sia giusta; se il dipingere sia opera servile; se valga il battesimo con acqua distillata, e simili. Il dubbio pratico poi è quando si dubita dell’onestà dell’azione, se per esempio è lecito in pratica il dipingere nella festa, o il militare nella guerra dubbiamente giusta. Sicché bisogna sempre distinguere il vero dal lecito: poiché il dubbio speculativo riguarda il vero, il pratico riguarda il lecito» (19).
Aggiunge perciò: «Diciamo che col dubbio pratico non è mai lecito operare perché l’uomo operando dee esser moralmente certo dell’onestà della sua azione… Col dubbio all’incontro speculativo è lecito operare, quando l’operante per altre ragioni praticamente giudica esser lecita l’azione; perché altre son le ragioni per giudicare della verità della cosa… altre le ragioni per giudicare dell’onestà dell’ azione» (20).
È importante saper leggere attentamente tutti i fattori che di fatto entrano nella nostra decisione. Non è corretto selezionarne solo alcuni e ostinarsi a ignorare gli altri. Non sarebbe più un «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Uno dei rischi maggiormente presenti oggi nella vita morale è quello di sottovalutare l’ importanza dell’oggetto delle nostre decisioni per privilegiare quasi esclusivamente l’intenzionalità soggettiva. Al riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolicapuntualizza: «Un’intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo) non rende né buono né giusto un comportamento in se stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi. Così, non si può giustificare la condanna di un innocente come un mezzo legittimo per salvare il popolo» (21).
La complessità della nostra società ci chiede però di essere altrettanto vigili anche nei riguardi dell’altro rischio: quello di non valutare adeguatamente le conseguenze e le altre circostanze del nostro agire. Esso è tanto più reale quanto più forte è l’ipoteca dell’individualismo nella nostra mentalità sociale: benché siano così estese le interdipendenze, ci illudiamo di poterle ignorare quando si pongono come un limite o come un peso.
Dovremmo allora ricordare le decise parole di Paolo ai cristiani di Corinto nei riguardi delle conseguenze del mangiare la carne immolata agli idoli: «Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà nord divenga occasione di caduta per i deboli… Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1Cor 8,8‑9.13). Verità, libertà e carità costituiscono i tre valori da cui la coscienza cristiana non può mai prescindere in tutte le sue decisioni. E sono strettamente correlati tra di loro.
La diversità delle situazioni e il ritmo con il quale si evolvono devono stimolare ogni credente a maturare una capacità di discernimento sempre più profonda. Il monito del Vaticano II ai laici per quanto riguarda le decisioni da prendere nel sociale è tuttora significativo: spetta «alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta e che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (22).
Uno dei rischi maggiormente presenti oggi nella vita morale è quello di sottovalutare l’ importanza dell’oggetto delle nostre decisioni per privilegiare quasi esclusivamente l’intenzionalità soggettiva. Al riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolicapuntualizza: «Un’intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo) non rende né buono né giusto un comportamento in se stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi. Così, non si può giustificare la condanna di un innocente come un mezzo legittimo per salvare il popolo» (21).
La complessità della nostra società ci chiede però di essere altrettanto vigili anche nei riguardi dell’altro rischio: quello di non valutare adeguatamente le conseguenze e le altre circostanze del nostro agire. Esso è tanto più reale quanto più forte è l’ipoteca dell’individualismo nella nostra mentalità sociale: benché siano così estese le interdipendenze, ci illudiamo di poterle ignorare quando si pongono come un limite o come un peso.
Dovremmo allora ricordare le decise parole di Paolo ai cristiani di Corinto nei riguardi delle conseguenze del mangiare la carne immolata agli idoli: «Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà nord divenga occasione di caduta per i deboli… Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1Cor 8,8‑9.13). Verità, libertà e carità costituiscono i tre valori da cui la coscienza cristiana non può mai prescindere in tutte le sue decisioni. E sono strettamente correlati tra di loro.
La diversità delle situazioni e il ritmo con il quale si evolvono devono stimolare ogni credente a maturare una capacità di discernimento sempre più profonda. Il monito del Vaticano II ai laici per quanto riguarda le decisioni da prendere nel sociale è tuttora significativo: spetta «alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta e che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (22).
4. Il dubbio e la perplessità
Anche quando ci impegniamo lealmente nella ricerca della verità e siamo pronti ad aderire ad essa, man mano che la scopriamo, traducendola in scelte coerenti, sono poche le volte in cui riusciamo ad escludere del tutto una qualche dose di rischio e di incertezza dalle nostre decisioni. Spesso, benché a livello teorico tutto sia chiaro, sorgono diversi interrogativi quando scendiamo a livello di vita concreta. Sono troppo numerosi i fattori che intervengono e non è sempre agevole padroneggiarli e comporli in maniera adeguata.
In periodi di cambiamento socio‑religioso accentuato, tutto questo può assumere toni più marcati. Il Settecento è stato uno di questi periodi: la coscienza dei fedeli ha vissuto in modo acuto la difficoltà di comporre insieme la fedeltà alla purezza evangelica della vita cristiana con la necessità di renderla significativa e incarnata in un contesto scosso da fermenti di novità molto forti.
La proposta morale alfonsiana, tesa a individuare il « giusto mezzo» tra rigorismo e lassismo, è pensata come risposta a tale situazione di ansietà e di disagio. Con la sua «benignità pastorale», come scrive M. VIDAL, Alfonso cerca di «dare “quiete” alla coscienza del cristiano, senza però che questo supponga uno sconto sul vangelo, né una tranquillità disimpegnata, né una perdita della tensione verso la perfezione evangelica» (23). È una proposta che resta valida per la risoluzione delle situazioni di incertezza morale in cui veniamo oggi a trovarci sempre più frequentemente per la rapidità dell’evolversi delle situazioni.
Anche quando ci impegniamo lealmente nella ricerca della verità e siamo pronti ad aderire ad essa, man mano che la scopriamo, traducendola in scelte coerenti, sono poche le volte in cui riusciamo ad escludere del tutto una qualche dose di rischio e di incertezza dalle nostre decisioni. Spesso, benché a livello teorico tutto sia chiaro, sorgono diversi interrogativi quando scendiamo a livello di vita concreta. Sono troppo numerosi i fattori che intervengono e non è sempre agevole padroneggiarli e comporli in maniera adeguata.
In periodi di cambiamento socio‑religioso accentuato, tutto questo può assumere toni più marcati. Il Settecento è stato uno di questi periodi: la coscienza dei fedeli ha vissuto in modo acuto la difficoltà di comporre insieme la fedeltà alla purezza evangelica della vita cristiana con la necessità di renderla significativa e incarnata in un contesto scosso da fermenti di novità molto forti.
La proposta morale alfonsiana, tesa a individuare il « giusto mezzo» tra rigorismo e lassismo, è pensata come risposta a tale situazione di ansietà e di disagio. Con la sua «benignità pastorale», come scrive M. VIDAL, Alfonso cerca di «dare “quiete” alla coscienza del cristiano, senza però che questo supponga uno sconto sul vangelo, né una tranquillità disimpegnata, né una perdita della tensione verso la perfezione evangelica» (23). È una proposta che resta valida per la risoluzione delle situazioni di incertezza morale in cui veniamo oggi a trovarci sempre più frequentemente per la rapidità dell’evolversi delle situazioni.
Una delle casistiche più comuni è la perplessità morale: «quando alcuno ‑ come scrive Alfonso ‑ si trova costituito in mezzo a due precetti, per esempio di salvare la vita al prossimo e di non giurare il falso, ed egli non sa che risolvere» (24). Nel nostro contesto questo si verifica soprattutto come conflittualità pratica (si noti pratica non già teorica) tra due valori: se si opta per l’uno si va contro l’altro o viceversa e, se non si opera nessuna scelta, si finisce con l’andare di fatto contro entrambi.
Spesso in queste situazioni la preghiera, la riflessione e il consiglio permettono di individuare una maniera pratica di comporre i diversi valori. Quando invece, malgrado tutto questo, si resta nella perplessità o quando non è possibile rimandare la decisione, Alfonso suggerisce i seguenti passi: «Per primo, dee consigliarsi co’ savi, se può. Per secondo, se non può, dee eleggere il minor male, evitando v.g. più presto la trasgressione del precetto naturale, che dell’umano, o positivo divino. Per terzo, se non sa finalmente distinguere il minor male, egli non pecca, a qualunque parte si appigli, poiché allora gli manca la libertà necessaria per il peccato formale» (25).
Spesso in queste situazioni la preghiera, la riflessione e il consiglio permettono di individuare una maniera pratica di comporre i diversi valori. Quando invece, malgrado tutto questo, si resta nella perplessità o quando non è possibile rimandare la decisione, Alfonso suggerisce i seguenti passi: «Per primo, dee consigliarsi co’ savi, se può. Per secondo, se non può, dee eleggere il minor male, evitando v.g. più presto la trasgressione del precetto naturale, che dell’umano, o positivo divino. Per terzo, se non sa finalmente distinguere il minor male, egli non pecca, a qualunque parte si appigli, poiché allora gli manca la libertà necessaria per il peccato formale» (25).
Altre volte l’incertezza morale deriva dal fatto che una legge è dubbia in sé o è resa tale da elementi presenti nella situazione personale o comunitaria. Per Alfonso è indispensabile arrivare alla certezza pratica, se si vuole agire correttamente. A questo fine, in quei casi in cui non è possibile raggiungerla mediante la ricerca diretta della verità, per quanto sincera e leale, formula alcuni criteri fondamentali, frutto di una lunga e appassionata ricerca. Provo a riassumerli: se « l’ opinione in favore della legge sembra certamente più probabile, siamo obbligati a seguirla». È esigito dal rispetto e dalla lealtà nei riguardi della verità, che ci chiedono di aderire a ciò che ècertamente più vicino ad essa. Quando invece la posizione in favore della libertà e quella in favore della legge presentano un analogo grado di probabilità («sono equiprobabili»), è segno che «l’esistenza della legge è dubbia. Non si può allora dire che sia sufficientemente promulgata e se non è sufficientemente promulgata, non può obbligare. Una legge incerta non può imporre un obbligo certo» (26).
Essendo infatti «prima da Dio considerato l’uomo in quanto libero» la «legge dubbia non obbliga» e la «legge incerta non può indurre un obbligo certo» (27). Non è minimismo o arbitrarietà. Alfonso presuppone una coscienza che non solo si è sinceramente orientata per il bene, masi sa chiamata alla santità. La libertà è percepita da una tale coscienza come «segno altissimo dell’immagine di Dio» come ricorda il n. 17 della costituzione conciliare Gaudium et spes: è sempre ricercare e attuare tutto il bene possibile. E per questo occorre non lasciarsi bloccare da incertezze immotivate, anche se rivestite dalla preoccupazione per il bene.
I rischi di individualismo e di relativismo presenti nel nostro contesto non possono farci accantonare queste fondamentali prospettive. Lo stesso Concilio aggiunge: « Il vangelo annunzia e proclamala libertà dei figli di Dio, respinge in ultima analisi ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal peccato, onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione» (28).
Occorre un impegno maggiore di evangelizzazione nei riguardi della libertà e della dignità della persona, tendente non solo di mettere in luce le loro deformazioni e manipolazioni, ma soprattutto di farne sperimentare l’ autentico valore. La proposta alfonsiana è uno stimolo deciso in questa prospettiva.
Essendo infatti «prima da Dio considerato l’uomo in quanto libero» la «legge dubbia non obbliga» e la «legge incerta non può indurre un obbligo certo» (27). Non è minimismo o arbitrarietà. Alfonso presuppone una coscienza che non solo si è sinceramente orientata per il bene, masi sa chiamata alla santità. La libertà è percepita da una tale coscienza come «segno altissimo dell’immagine di Dio» come ricorda il n. 17 della costituzione conciliare Gaudium et spes: è sempre ricercare e attuare tutto il bene possibile. E per questo occorre non lasciarsi bloccare da incertezze immotivate, anche se rivestite dalla preoccupazione per il bene.
I rischi di individualismo e di relativismo presenti nel nostro contesto non possono farci accantonare queste fondamentali prospettive. Lo stesso Concilio aggiunge: « Il vangelo annunzia e proclamala libertà dei figli di Dio, respinge in ultima analisi ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal peccato, onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione» (28).
Occorre un impegno maggiore di evangelizzazione nei riguardi della libertà e della dignità della persona, tendente non solo di mettere in luce le loro deformazioni e manipolazioni, ma soprattutto di farne sperimentare l’ autentico valore. La proposta alfonsiana è uno stimolo deciso in questa prospettiva.
5. La formazione della coscienza
Sulla necessità della formazione della coscienza oggi conveniamo tutti, convinti che solo da coscienze mature e vere può scaturire la possibilità di orientarci per il bene, sottraendoci ai tanti condizionamenti e alle tante manipolazioni che segnano la nostra vita. La stessa problematica sociopolitica sottolinea con forza il bisogno di una «rivoluzione delle coscienze»: sappiamo bene che, senza di essa, le riforme organizzative e strutturali e gli interventi di tipo repressivo possono fare ben poco.
Non conveniamo però su come intendere e come di fatto attuare la formazione della coscienza. Spesso viene ridotta all’una o all’altra delle sue componenti. C’è ad esempio chi sottolinea talmente le informazioni normative da rischiare di dimenticare che la coscienza non è solo conoscenza: essa è prima di tutto la persona che decide se stessa in un progetto di vita unitario e carico di senso; per il credente è esperienza della «altezza della vocazione in Cristo» e della carità come imperativo a fruttificare per la vita del mondo (29) e perciò ascolto della testimonianza filiale e della guida dello Spirito. Altri invece privilegiano talmente la spontaneità e la immediatezza della esperienza da far passare quasi sotto silenzio il fatto che il discernimento del bene esige non solo l’orientamento fondamentale verso di esso ma anche la lettura paziente delle situazioni con l’aiuto di tutti gli strumenti che possono facilitarcene il riconoscimento qui e ora.
«L’educazione della coscienza, ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai risentimenti della colpevolezza e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (30).
Alcune affermazioni alfonsiane sono tuttora molto preziose per un cammino di formazione della coscienza fedele alla sua dignità come emerge dalla visione cristiana della persona umana. Quella più decisiva è che fulcro di tutta la formazione deve essere un’esperienza sempre più chiara della personale chiamata alla santità: «Iddio vuol tutti santi, scriveva nella Pratica di amar Gesù Cristo, ed ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando di ogni altro stato» (31).
La vita morale è un cammino graduale, teso verso la pienezza. La coscienza dovrà approfondire incessantemente e trasformare in decisione coerente tale orientamento ricordando che ad esso è correlata la vera felicità dell’uomo.
Diventa allora possibile maturare, in maniera sempre più chiara, la capacità di discernere, nel vivo delle mille situazioni della vita quotidiana, il bene da compiere. Si tratta a volte di passi molto umili, ma sono tutti importanti per procedere in avanti.
La conoscenza dei criteri che permettono tale discernimento è elemento essenziale, ma non esclusivo. Sarà ugualmente importante il loro corretto utilizzo, che esclude ogni formalismo, ma anche ogni relativismo. Per Alfonso la formazione della coscienza è sempre crescita nella prudenza, la virtù che permette di arrivare effettivamente alla «verità pratica», indispensabile al nostro corretto agire.
La vita morale è un cammino graduale, teso verso la pienezza. La coscienza dovrà approfondire incessantemente e trasformare in decisione coerente tale orientamento ricordando che ad esso è correlata la vera felicità dell’uomo.
Diventa allora possibile maturare, in maniera sempre più chiara, la capacità di discernere, nel vivo delle mille situazioni della vita quotidiana, il bene da compiere. Si tratta a volte di passi molto umili, ma sono tutti importanti per procedere in avanti.
La conoscenza dei criteri che permettono tale discernimento è elemento essenziale, ma non esclusivo. Sarà ugualmente importante il loro corretto utilizzo, che esclude ogni formalismo, ma anche ogni relativismo. Per Alfonso la formazione della coscienza è sempre crescita nella prudenza, la virtù che permette di arrivare effettivamente alla «verità pratica», indispensabile al nostro corretto agire.
Perché tutto questo si verifichi è necessario essere sempre più consapevoli che il volto autentico del bene e della verità lo si ritrova solo in Cristo Redentore. La memoria e l’ esperienza grata del suo amore sono fondamentali per ogni corretta formazione. Per Alfonso esse vanno approfondite incessantemente soprattutto attraverso la meditazione del Crocifisso e la celebrazione convinta dell’eucaristia e del sacramento della riconciliazione. La coscienza potrà allora essere fonte di un agire morale che sia effettivamente pratica di amore: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore. Chi ama me, disse Gesù medesimo, sarà amato dall’eterno mio Padre» (32).
Questo amore sfocerà nel sì sempre più generoso al progetto di salvezza e di pienezza che in Cristo il Padre ha su ognuno di noi e sull’intera storia. Per Alfonso l’ impegno di formazione della coscienza è valido solo se permetterà a questo sì di scaturire convinto e gioioso anche quando ci si trova di fronte alla croce: anche allora dovremo fare in modo che « noi della volontà divina e della nostra ne facciamo una sola, sì che non vogliamo altro se non quello che vuole Dio, e la sola volontà di Dio sia la nostra» (33).
Questo amore sfocerà nel sì sempre più generoso al progetto di salvezza e di pienezza che in Cristo il Padre ha su ognuno di noi e sull’intera storia. Per Alfonso l’ impegno di formazione della coscienza è valido solo se permetterà a questo sì di scaturire convinto e gioioso anche quando ci si trova di fronte alla croce: anche allora dovremo fare in modo che « noi della volontà divina e della nostra ne facciamo una sola, sì che non vogliamo altro se non quello che vuole Dio, e la sola volontà di Dio sia la nostra» (33).
Sono le stesse prospettive indicate da Giovanni Paolo II come essenziali alla ministerialità della chiesa nei riguardi della formazione delle coscienze: «Quest’opera della Chiesa trova il suo punto di forza ‑ il suo “segreto” formativo ‑non tanto negli enunciati dottrinali e negli appelli pastorali alla vigilanza, quanto nel tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. La Chiesa ogni giorno guarda con instancabile amore a Cristo, pienamente consapevole che solo in lui sta la risposta vera e definitiva al problema morale» (34).
6. Affidati gli uni agli altri
Il rispetto per la coscienza di ogni persona costituisce un’acquisizione fondamentale del cammino della civiltà. Esso è in profonda sintonia con il vangelo, anche se non sempre i credenti lo hanno vissuto con coerenza. Tra i « capitoli dolorosi» della storia della chiesa, riguardo ai quali Giovanni Paolo II ci chiama a un sincero impegno di conversione in vista del giubileo del Duemila, v’è «l’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità». Da questi «tratti dolorosi del passato» va tratta «una lezione per il futuro, che deve indurre ogni cristiano a tenersi ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio: “La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore”» (35).
Il rispetto per la coscienza di ogni persona costituisce un’acquisizione fondamentale del cammino della civiltà. Esso è in profonda sintonia con il vangelo, anche se non sempre i credenti lo hanno vissuto con coerenza. Tra i « capitoli dolorosi» della storia della chiesa, riguardo ai quali Giovanni Paolo II ci chiama a un sincero impegno di conversione in vista del giubileo del Duemila, v’è «l’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità». Da questi «tratti dolorosi del passato» va tratta «una lezione per il futuro, che deve indurre ogni cristiano a tenersi ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio: “La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore”» (35).
Questo sincero rispetto per la coscienza si svalora quando diventa passività o indifferenza nei riguardi del cammino di crescita nel bene degli altri. La mentalità oggi dominante spesso preme in questa direzione: purché non ci danneggino, non interessa di come gli altri stanno realizzando la loro libertà; è un fatto che riguarda solo i singoli.
Tutto questo però è assurdo per il credente. Il vangelo ci chiede un atteggiamento di profonda solidarietà nel cammino verso il bene. Non possiamo mai far nostra la giustificazione di Caino: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9). Il rispetto è sempre solidarietà. Ognuno di noi è «affidato» agli altri e deve sentire gli altri «affidati» a sé.
Con la stessa forza, con la quale affermiamo che la formazione della coscienza è diritto e responsabilità inalienabile di ogni persona, dobbiamo anche ricordare che è corresponsabilità di tutti. Ognuno deve farsi fraternamente carico del cammino verso il bene degli altri: senza sostituirsi, senza imporre, senza forzare, ma con proposte chiare e significative e un sostegno premuroso.
Tutto questo però è assurdo per il credente. Il vangelo ci chiede un atteggiamento di profonda solidarietà nel cammino verso il bene. Non possiamo mai far nostra la giustificazione di Caino: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9). Il rispetto è sempre solidarietà. Ognuno di noi è «affidato» agli altri e deve sentire gli altri «affidati» a sé.
Con la stessa forza, con la quale affermiamo che la formazione della coscienza è diritto e responsabilità inalienabile di ogni persona, dobbiamo anche ricordare che è corresponsabilità di tutti. Ognuno deve farsi fraternamente carico del cammino verso il bene degli altri: senza sostituirsi, senza imporre, senza forzare, ma con proposte chiare e significative e un sostegno premuroso.
Alfonso insiste su questa solidarietà, sottolineando soprattutto le responsabilità di coloro che a livello familiare, ecclesiale e sociale sono chiamati a svolgere un ruolo più specifico. Così ai genitori non si stanca di ricordare che peccano nei riguardi dei figli «se trascurano d’istruirli, o almeno di fargl’istruire nelle cose necessarie della fede, e della salute» (36). Ai parroci sottolinea l’ obbligo dell’annunzio e della correzione: «non solo il pascere le loro gregge colla divina parola, ma anche il pascerle secondo la loro capacità, facendo sermoni facili, affinché intendano quel che si predica» (37).
Occorre creare un clima di reciprocità rispettosa e solidale nella ricerca e nell’attuazione del bene. Le parole del Concilio restano stimolanti: «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare le verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alla norme oggettive della moralità» (38).
Occorre creare un clima di reciprocità rispettosa e solidale nella ricerca e nell’attuazione del bene. Le parole del Concilio restano stimolanti: «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare le verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alla norme oggettive della moralità» (38).
Oggi è prima di tutto indispensabile impegnarsi per creare un’opinione pubblica più aperta ai valori e più chiara. Troppe volte il nostro ‘silenzio diventa collaborazione all’affermarsi di prospettive e di stili che non sono validi. E i più deboli pagano il prezzo più alto. Occorre una franchezza maggiore nei riguardi della verità per non contribuire a una congiura del silenzio nei riguardi del vero e del bene.
In questo clima di franchezza e di solidarietà rispettosa sarà possibile trovare il linguaggio e gli atteggiamenti che rendono veramente significativa la proposta della verità e del bene. Così, quando ci si trova di fronte a una persona concreta, occorre rispettare il ritmo e la gradualità del suo cammino verso il bene. Solo in questa maniera il sostegno e lo stimolo saranno costruttivi.
Anche a questo riguardo la visione di Sant’Alfonso è particolarmente ispirante. Egli sottolinea che ciò che più conta nel cammino di formazione della coscienza è che ognuno resti in cammino verso la pienezza della verità e del bene. L’aiuto va pensato sempre su questa base e in questa prospettiva. Gli interventi su singoli aspetti del comportamento devono rinforzare non già mettere in crisi il cammino. L’uomo ferito e indebolito dal peccato ha bisogno della medicina della verità, ma occorre che le venga data in maniera che sia effettivamente salutare e non blocchi il pieno recupero.
Il richiamo di Alfonso ai confessori resta tuttora valido e non solo per loro: « E’ obbligato il confessore ad ammonire chi sta nell’ignoranza colpevole di qualche suo obbligo, o sia di legge naturale o positiva. Che se il penitente l’ignorasse senza colpa, allora, quando l’ignoranza è circa le cose necessarie alla salvezza, in ogni conto gliela deve togliere; se poi è d’altra materia, ancorché sia circa i precetti divini, e `1 confessore prudentemente giudica che l’ammonizione sia per nuocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il penitente nella sua buona fede… La ragione si è, perché si deve maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso» (39).
Questo però non vale quando «dovesse avvenirne danno al ben comune». Allora il confessore « è tenuto a preferire il ben comune al privato del penitente, ancorché preveda che a costui non gioverà l’ ammonizione: onde in ogni conto deve ammonire i principi, i governatori, i confessori ed i prelati che mancano al loro obbligo» (40).
In questo clima di franchezza e di solidarietà rispettosa sarà possibile trovare il linguaggio e gli atteggiamenti che rendono veramente significativa la proposta della verità e del bene. Così, quando ci si trova di fronte a una persona concreta, occorre rispettare il ritmo e la gradualità del suo cammino verso il bene. Solo in questa maniera il sostegno e lo stimolo saranno costruttivi.
Anche a questo riguardo la visione di Sant’Alfonso è particolarmente ispirante. Egli sottolinea che ciò che più conta nel cammino di formazione della coscienza è che ognuno resti in cammino verso la pienezza della verità e del bene. L’aiuto va pensato sempre su questa base e in questa prospettiva. Gli interventi su singoli aspetti del comportamento devono rinforzare non già mettere in crisi il cammino. L’uomo ferito e indebolito dal peccato ha bisogno della medicina della verità, ma occorre che le venga data in maniera che sia effettivamente salutare e non blocchi il pieno recupero.
Il richiamo di Alfonso ai confessori resta tuttora valido e non solo per loro: « E’ obbligato il confessore ad ammonire chi sta nell’ignoranza colpevole di qualche suo obbligo, o sia di legge naturale o positiva. Che se il penitente l’ignorasse senza colpa, allora, quando l’ignoranza è circa le cose necessarie alla salvezza, in ogni conto gliela deve togliere; se poi è d’altra materia, ancorché sia circa i precetti divini, e `1 confessore prudentemente giudica che l’ammonizione sia per nuocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il penitente nella sua buona fede… La ragione si è, perché si deve maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso» (39).
Questo però non vale quando «dovesse avvenirne danno al ben comune». Allora il confessore « è tenuto a preferire il ben comune al privato del penitente, ancorché preveda che a costui non gioverà l’ ammonizione: onde in ogni conto deve ammonire i principi, i governatori, i confessori ed i prelati che mancano al loro obbligo» (40).
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(1) Evangelium vitae, n. 95.
(2) Veritatis splendor, n. 54.(3) Ed. GAUDÉ, I, p. 3. ° Tract. I, cap. I, n. 1, p. 3.
(5) Veritatis splendor, n. 36.
(6) Cf. Gaudium et spes, n. 16; ritorneremo in seguito su questo importante testo.
(7) N. 1780.
(8) Gaudium et spes, n. 16.
(9) Ivi. Tutto questo appare carico di maggior significato se letto alla luce di quanto lo stesso Concilio afferma della teologia morale che deve illustrare « l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo nella carità di apportare frutto per la vita del mondo» (Optatam totius, n. 16).
(10) Gaudium et spes, n. 16.
(11) teritatis splendor, n. 7. Ivi, n. 17.
(12) Gaudium et spes, n. 17.
(14) N. 1‑3.
(15) S Cf. Theologia moralis, lib. 1, tract. 1, cap. III, cor. II, n. 75‑76, ed. GAUDÉ, I, p. 50‑53.
(16) N. 40.
(17)N. 1750.
(18) Ivi, n. 1780.
(19) Istruzione e pratica pei confessori, cap. 1, punto II, n. 13, in Opere complete, IX, Torino 1861, p. 11.(20) Ivi, n. 13‑14.
(21) N. 1753.
(23) Gaudium et spes, n. 43.
(23) La morale di Sant’Alfonso…, p. 272.
(24) Istruzione e pratica…, cap. I, punto 1, n. 7, p. 9.(25) Ivi.
(26) Theologia moralis, lib. I., tract. I, cap. III, n. 54‑56, ed. GAUDL, I, 2526.
(27) Sono i titoli dei due “corollari” che Alfonso aggiunge nella Theologia moralis alla dettagliata esposizione del suo «sistema morale per il riconoscimento delle opinioni che possiamo seguire lecitamente».
(28) Gaudium et spes, n. 41.
(29) Cf. Optatam totius, n. 16.
(30) N. 1784.
(31) Cap. VIII, n. 10, p. 79.
(32) Ivi, cap. I, n. 1, p. 1.
(33) Uniformità alla volontà di Dio, in Opere ascetiche, I, p. 286.
(34) Veritatis splendor, n. 85.(35) Tertio millennio adveniente, n. 35.(36) Istruzione e pratica…, cap. VII, punto II, n. 5, p. 135.
(37) Ivi, punto IV, n. 36, p. 146‑147.
(38) Gaudium et spes, n. 16.
(39) Pratica del confessore…, cap. I, n. 8, p. 785.
(40) Ivi, n. 9.
(1) Evangelium vitae, n. 95.
(2) Veritatis splendor, n. 54.(3) Ed. GAUDÉ, I, p. 3. ° Tract. I, cap. I, n. 1, p. 3.
(5) Veritatis splendor, n. 36.
(6) Cf. Gaudium et spes, n. 16; ritorneremo in seguito su questo importante testo.
(7) N. 1780.
(8) Gaudium et spes, n. 16.
(9) Ivi. Tutto questo appare carico di maggior significato se letto alla luce di quanto lo stesso Concilio afferma della teologia morale che deve illustrare « l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo nella carità di apportare frutto per la vita del mondo» (Optatam totius, n. 16).
(10) Gaudium et spes, n. 16.
(11) teritatis splendor, n. 7. Ivi, n. 17.
(12) Gaudium et spes, n. 17.
(14) N. 1‑3.
(15) S Cf. Theologia moralis, lib. 1, tract. 1, cap. III, cor. II, n. 75‑76, ed. GAUDÉ, I, p. 50‑53.
(16) N. 40.
(17)N. 1750.
(18) Ivi, n. 1780.
(19) Istruzione e pratica pei confessori, cap. 1, punto II, n. 13, in Opere complete, IX, Torino 1861, p. 11.(20) Ivi, n. 13‑14.
(21) N. 1753.
(23) Gaudium et spes, n. 43.
(23) La morale di Sant’Alfonso…, p. 272.
(24) Istruzione e pratica…, cap. I, punto 1, n. 7, p. 9.(25) Ivi.
(26) Theologia moralis, lib. I., tract. I, cap. III, n. 54‑56, ed. GAUDL, I, 2526.
(27) Sono i titoli dei due “corollari” che Alfonso aggiunge nella Theologia moralis alla dettagliata esposizione del suo «sistema morale per il riconoscimento delle opinioni che possiamo seguire lecitamente».
(28) Gaudium et spes, n. 41.
(29) Cf. Optatam totius, n. 16.
(30) N. 1784.
(31) Cap. VIII, n. 10, p. 79.
(32) Ivi, cap. I, n. 1, p. 1.
(33) Uniformità alla volontà di Dio, in Opere ascetiche, I, p. 286.
(34) Veritatis splendor, n. 85.(35) Tertio millennio adveniente, n. 35.(36) Istruzione e pratica…, cap. VII, punto II, n. 5, p. 135.
(37) Ivi, punto IV, n. 36, p. 146‑147.
(38) Gaudium et spes, n. 16.
(39) Pratica del confessore…, cap. I, n. 8, p. 785.
(40) Ivi, n. 9.
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